Coda alla vaccinara


 Per AIFB, Associazione Italiana Food blogger, ho realizzato un anno fa questo contributo sulla coda alla vaccinara. Lo trovate sul sito nella sezione Food Trotter, ma anche qui. Buona lettura.





Storia di una coda che divenne vaccinara  

 “Ormai me reggo su ‘na cianca sola. - Diceva un grillo - Quella che me manca m’arimase attaccata a la cappiola. […]. Ripeto tra me e me la storia del grillo di Trilussa (“Favole romanesche”, 1901), imparata a memoria da bambina, mentre percorro la stretta strada dissestata che, costeggiando il Monte dei Cocci del quartiere di Testaccio, a Roma, mi porta all’ingresso del Mattatoio. Lo chiamiamo ancora così noi romani di una certa età.  È l’EX-mattatoio, in verità. Chiuso dal 1975. Nei decenni successivi a quella data si è trasformato, ospitando al suo interno: il Museo MACRO di arte contemporanea, una delle facoltà di architettura della capitale, il centro di cultura omosessuale M. Mieli con gli eventi serali di “Muccassassina” (geniale scelta del nome!), il mercato e spazio espositivo di economia ecologica ed equo-solidale, una scuola di musica e tanto altro, comprese occupazioni e centri sociali. In un certo senso, il vecchio macello ha ceduto il passo ad un nuovo “macello”; il primo era di morte, il secondo è vitale e creativo.

  

                              All’ingresso, la scritta: “Stabilimento di mattazione”



 La ristrutturzione ha mantenuto i binari su cui scorrevano i ganci per gli animali



                                          L’interno di una delle stalle




In questo luogo si può capire la storia di un piatto romano tra i più celebri: la coda alla vaccinara. Mi sembra di sentire la voce del vaccinaro appoggiato al muro di una stalla, un po’ curvo, braccia e mani forti:
A more’, che stai a cerca’? Qua nun ce stà più gniente!” E osservando il mio sguardo che scandaglia ogni angolo del posto, continua: “Capirai, me ce so’ rotto l’ossa qua dentro.” E mi racconta che i vaccinari, detti anche “scortichini”, erano le persone che svolgevano nel mattatoio il lavoro più faticoso di scuoiare le carcasse degli animali. E per questo venivano ricompensati con le parti meno pregiate delle povere bestie, il famoso quinto quarto (gli organi interni o frattaglie, parti della testa, coda, lingua, zampe), che finivano nei tegami delle cucine del quartiere, assai povere di ingredienti ma piene di tanta buona volontà. E di tempo. Per trasformare quei pezzi di carne in piatti saporiti e nutrienti. 
Le voci di un gruppo di studenti universitari che passano fuori mi distoglie dal mio sogno e mi riportano al presente. Devo parlare con persone reali, non con i fantasmi. Voglio sapere com’è nata la ricetta. O meglio, più che l’origine (intuibile dal nome), di sicuro nelle case dei vaccinari e di chi aveva il compito di sfamare i lavoratori della zona, la sua codificazione.  Chi meglio di “Checchino” può spiegarmelo?!









Lo storico ristorante “Checchino dal 1887” nel cuore del quartiere Testaccio di Roma (fotografia del sito www.checchino-dal-1887.com)








Il ristorante “Checchino dal 1887” nasce come molti altri nel quartiere Testaccio come osteria, adatta a soddisfare una clientela di industriali, commercianti, negozianti e impiegati della pubblica amministrazione, che qui lavoravano e amavano il buon cibo accompagnato dal vino rinomato dei Castelli Romani. Non devo fare altro che uscire dal Mattatoio ed attraversare la piazzetta. Ecco l’ingresso. Dove mi aspettano Francesco ed Elio Mariani, eredi di quinta generazione insieme alla sorella Marina. Elio mi racconta che i tre fratelli sono cresciuti proprio curiosando all’interno del Mattatoio. Mi spiega che la loro osteria, come consuetudine nella zona, era inizialmente solo una mescita di vino, dove i “fagottari” (le persone che venivano da fuori e si portavano il “fagotto” con le provviste da mangiare) prendevano un tavolo e ordinavano da bere consumando il cibo di casa. Poi, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, con l’apertura del Mattatoio, le mescite iniziarono a preparare i piatti a base di carne: animelle fritte, fegato in padella, coratella con i carciofi, zampetti in umido, rigatoni con la pajata, coda alla vaccinara.
Mi interessa sapere come probabilmente sarà cambiato il piatto nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Le carni oggi sono più magre e ciò incide sul loro sapore. L’attenzione alla materia prima è tutto. I Mariani si affidano a produttori che rispettano il più possibile i ritmi di crescita naturali dell’animale. Stessa cosa per i prodotti lavorati utilizzati. La ricetta originale prevedeva l’uso di lardo, che attualmente viene in parte sostituito dall’olio d’oliva. Colpa delle diete. Peccato! C’era poi l’abitudine di cuocere insieme alla coda i gaffi, le guance della bestia. Era l’unico modo per mangiarli, perché sono durissimi. Si può capire: stiamo parlando di un ruminante. Oggi questa è una parte quasi impossibile da trovare. E poi arriviamo alla faccenda dell’utilizzo di uvetta, pinoli e, addirittura, cacao amaro. L’uso di questi ingredienti non c’era in origine; è un aggiunta successiva, quando il piatto si è diffuso tra le classi benestanti. Molto benestanti. Nobiltà e papato ne avevano disponibilità e li usavano per arricchire e ingentilire una ricetta altrimenti troppo forte per i loro palati.
E il vino? Non credo ci sia mai stato un abitante di Testaccio che si sia fatto fuori un piatto di coda senza un buon bicchiere. Poiché ho di fronte a me non uno, ma due, sommelier, posso imparare che la ricetta si abbina senza scomporsi ad un Brunello di Montalcino o persino ad un Bordeaux. Ma rivolgendoci ai vini laziali, ci orientiamo verso un Cesanese del Piglio DOCG (come Il torre del Piano) o uno Syrah (ad esempio il Tellus). A proposito di bottiglie, la cantina del ristorante “Checchino” sono uno spettacolo. Come altri ambienti sotterranei del quartiere, testimoniano l’origine del Monte Testaccio: un ammasso ordinato di “testae” (da cui il nome del quartiere: “testaculum”), cioè anfore romane, in cui venivano trasportati  principalmente olio e vino. Esemplare la capacità di riciclaggio: i contenitori venivano spaccati in modo da dividere il collo, la pancia e i manici, poi sovrapposti separatamente, a formare ammassi e muri omogenei, così che le parti uguali aderissero in modo stabile. La nostra raccolta differenziata ai loro occhi apparirebbe ridicola. Ahimé!
Mi congedo dal ristorante e da Testaccio ripercorrendo la strada a ritroso e mi permetto una riflessione filosofica. Avvicinandosi alla storia dei nostri piatti, rifletto sull’espressione “Siamo ciò che mangiamo” di L. Feuerbach (“Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia”, 1862), oggi ripetuta come unico mantra. Mi viene spontaneo affiancarla al suo opposto (par condicio?): quello che noi siamo (eventi storici, trasformazioni sociali, evoluzione culturale) crea e modifica la natura e la qualità di ciò che mangiamo. Il cibo non è la causa, semmai l’effetto. Ma il sole è già alto. E si avvicina l’ora di pranzo.





 CODA ALLA VACCINARA







Sebbene esistano diverse versioni e varianti sugli ingredienti e le preparazioni, mi sono attenuta alla ricetta fornita dal ristorante “Checchino dal 1887”, Via Monte Testaccio, 30 - Roma
Le quantità che riporto sono dedotte sulla base delle indicazioni fornite dalla fonte citata.

Per 4 persone.
Tempo: 45 minuti di preparazione, 4-5 ore di cottura.

Ingredienti
Una coda di bovino adulto (si trova già tagliata in pezzi di circa 5-7 cm di spessore e pronta per la cottura)
50 g di lardo
1 dl di olio extra vergine d’oliva
1 cipolla dorata tritata
2 spicchi d’aglio
2 chiodi di garofano
200 ml di vino bianco secco (si preferisce quello dei Castelli Romani)
1,5 kg di pomodori pelati
500 ml circa di acqua bollente (o brodo)
Sale
Pepe
150 g di coste di sedano bianco
20 g di pinoli
20 g di uva sultanina ammollata in acqua

In un tegame con fondo spesso e bordi alti fate soffriggere il lardo con l’olio. Unite i pezzi di coda e rosolateli da ogni lato. Aggiungete poi la cipolla tritata, gli spicchi d’aglio, i chiodi di garofano, sale e pepe. Lasciate dorare per qualche minuto, quindi bagnate con il vino e fate evaporare lentamente chiudendo il tegame con il coperchio. Dopo un quarto d’ora aggiungete i pomodori pelati tagliati in pezzi e lasciate cuocere ancora quindici minuti. Unite l’acqua (o brodo) bollente nella quantità sufficiente a ricoprire tutti i pezzi di coda. Chiudete con il coperchio e lasciate cuocere a fuoco dolce per 4 ore o finché la carne sia così tenera da staccarsi dall’osso, aggiungendo un poco di acqua ti tanto in tanto se necessario.
A fine cottura, lavate le coste di sedano, privatele dei filamenti esterni e tagliatele in pezzi di 10 cm di lunghezza. Sbollentatele per 5 minuti in acqua salata. Scolatele e fatele insaporire in un tegame a parte con 300 g del sugo di coda, aggiungendo anche i pinoli e l’uvetta e lasciandole cuocere per 5 minuti. Unite questa salsa di sedani ben calda alla coda al momento di servire. 










Gnocchi ripieni al Camembert, ragù d'anatra e riduzione di Valpolicella ai fichi d'india





Per la sfida n° 59 dell’MtChallenge, in cui Annarita Rossi de Il Bosco di Alici ha proposto (con mia grande gioia!!!) gli gnocchi di patate, vi farò spostare da un paese all’altro, per continuare a fingere di essere ancora in viaggio e in vacanza. Del resto, questa sfida ci fa sempre sentire un po’ fuori dal tram tram del quotidiano, in un luogo a sé, magico e speciale.




Mi piace quando possibile unire ingredienti di provenienza diversa. Amo la cucina del territorio, ma non sono affatto sostenitrice del km 0. Perché per me uno degli aspetti più divertenti e significativi del cibo è riuscire a far dialogare materie prime di regioni e nazioni differenti. Come in questo piatto, dove gli gnocchi di patate rappresentativi dell’Italia nel suo complesso, poiché diffusi capillarmente in tante sue regioni, incontrano il formaggio Camembert, emblema di uno tra i prodotti più amati della gastronomia di Francia.
Come in un ipotetico viaggio attraverso i territori, troviamo un elemento di unione tra i due Paesi, l’anatra, qui proposta in due cotture molto differenti, quella lenta e prolungata del ragù a base di pomodoro fresco e quella rapida della rosolatura alla piastra. Entrambe le modalità sono in grado di esaltare al massimo le caratteristiche di questa carne. L’anatra, sia domestica sia selvatica, è considerata carne rossa e a seconda delle parti trattate si dovrà privilegiare un tipo di cottura specifico. Infatti, in questa ricetta, le cosce più tenaci e fibrose sono adatte ad una cottura protratta, come quella di un sugo o di un brasato; il petto, al contrario, come per i tagli più teneri del manzo, si giova di una preparazione al sangue (tassativa nel caso di esemplari selvatici, che del resto dovranno essere giovani).
Dalla parte più a nord della Francia, la Normandia, terra di produzione del noto formaggio, attraverso le Alpi, scendiamo fino alla regione della Valpolicella, per trovare il vino da utilizzare nella preparazione del ragù e della salsa di glassatura per il petto d’anatra. Per le sue caratteristiche ho scelto il Valpolicella Ripasso dell’Azienda Sartori (uve Corvina, Corvinone e Rondinella), che si abbina in modo magnifico a sughi di cacciagione, alle cotture alla brace di carni selvatiche e ai formaggi dal sapore deciso.  

Con il fico d’india, poi, precediamo decisamente verso sud, al centro del Mediterraneo, dove questo frutto ha la sua massima diffusione: le isole di Sicilia e di Malta. È quasi un passaggio obbligato l’accostamento dell’anatra alla frutta. Il fico d’india, se non troppo maturo, mantiene un giusto equilibrio tra dolcezza e note astringenti (un po’ come i frutti di bosco), caratteristica adatta a queste carni.

E così, abbiamo percorso circa 2.500 Km, ma credo ne sia valsa la pena!
  




Dosi per 4 persone


Per il ragù d’anatra

300-350 ml di brodo di carne, 250 g di pomodori datterini frullati, 250 g di coscio d’anatra, 80 ml di Valpolicella Ripasso, 1 carota, 1 costa di sedano, ½ porro (part bianca), 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, boquet garni, 4 cucchiai di olio extravergine d’oliva, 1 bacca di ginepro, sale, pepe: trita separatamente il porro, la carota e il sedano e mettili a soffriggere in un tegame seguendo questo ordine. Aggiungi il bouquet garni e la bacca di ginepro. In una padella a parte fai rosolare la carne tagliata a macedoine e infarinata finché non sia ben dorata, poi aggiungila alle verdure. Con la stessa padella fai sfumare il vino fino all’evaporazione della parte alcolica e versalo anch’esso nel tegame. Aggiungi il concentrato, il sugo di pomodoro, e il brodo bollenti, aggiusta di sale e pepe e porta avanti la cottura a fuoco basso per 1 ora e ½, girando di tanto in tanto.



Per gli gnocchi di farina bianca ripieni al Camembert

250 g di patate a pasta bianca*, 80 g di farina 00, 50 g di Camembert: metti le patate intere non sbucciate in una boulle con un dito d’acqua, copri con della pellicola apposita e cuoci nel microonde alla potenza massima (circa 10- 12 minuti per potenza di 1400 w). Privale della buccia quando sono ancora calde e passale allo schiacciapatate. Aspetta che si raffreddino e si asciughino un poco (puoi allargarle sul piano di lavoro), poi uniscile alla farina e forma una massa compatta. Prepara dei cilindri di 2 cm di spessore, schiacciali come se volessi formare un nastro lungo e piatto e posiziona i pezzetti di formaggio tagliati a brunoise (per farlo agevolmente puoi tenere il formaggio per 1 ora nel congelatore prima di tagliarlo); richiudi la striscia su se stessa in modo da sigillare il Camembert all’interno e taglia gli gnocchi. Falli rotolare uno ad uno su di un rigagnocchi oppure aiutati con i rebbi di una forchetta.



Per gli gnocchi di farina mista ripieni al Camembert

250 g di patate a pasta bianca*, 70 g di farina 00, 30 g di farina con carbone vegetale: segui lo stesso procedimento descritto nel paragrafo precedente.

*Il peso si riferisce alle patate cotte e sbucciate, quindi cuoci in totale 650 g di prodotto, che poi suddividerai in due parti da 250 g ciascuna.




Per la riduzione di Valpolicella Ripasso ai fichi d’india

2 fichi d’india maturi, 80 g di Valpolicella, 80 g di vino passito, 50 g di acqua, 1 cucchiaino di zucchero, 10 g di burro, 172 cucchiaino di farina di riso, sale: sbuccia e taglia in pezzi i fichi d’india; unisci tutti gli ingredienti in un tegamino e fai cuocere per 30 minuti circa, schiacciando la frutta fino a ridurla in poltiglia. Filtra con un passino fine, rimetti sul fuoco e aggiungi il burro e farina sciolti insieme. Fai amalgamare il tutto e continua a sobbollire fino al raggiungimento di una consistenza cremosa.


150 g di petto d’anatra: incidi la pelle della carne con tagli perpendicolari tra loro; fai scaldare a fuoco vivo una padella in ferro o una piastra e rosola il petto d’anatra dalla parte della pelle per pochi minuti, fino a quando sarà completamente croccante e brunita; ripeti dall’altro lato e togli dal fuoco. Aggiungi un poco della riduzione di Valpolicella agli umori della carne rimasti in padella. Usa questa salsa per glassare il petto d’anatra.


Tuffa gli gnocchi in abbondante acqua bollente poco salata, scolali quando emergono in superficie e trasferiscili in una padella insieme al ragù. Manteca per pochi secondi e servi con qualche fetta di petto d’anatra glassata e con la riduzione di Valpolicella ai fichi.   





Banoffee pie






Questo dolce nacque negli anni ’70, quando un giovane cuoco inglese, Ian Dowding, si ritrovò a lavorare in un ristorante nel Sussex chiamato “The hungry monk”; d’accordo con il proprietario Nigel Mackenzie, decise di rinnovare il menù, essendo quelli anni di trasformazioni e grandi cambiamenti anche nel campo della ristorazione. Dowding aveva in passato lavorato in un locale nel quale si serviva un dessert a base di frolla, salsa toffee e panna montata, per la verità non molto apprezzato dalla clientela, ma che potenzialmente poteva avere successo. Decise così di riproporlo, ma apportando modifiche sostanziali alla preparazione originaria. L’idea vincente fu quella di creare un caramello davvero ottimo facendo bollire per alcune ore dal latte condensato. Inoltre, su consiglio di Mackenzie, fu decisa l’aggiunta di frutta e, dopo vari tentativi, ci fu la scoperta dell’abbinamento perfetto, quello con la banana. Da cui derivò il nome.
Nel giro di un paio di anni, il dolce comparve nei menù di molti ristoranti e valicò i confini nazionali. Nei paesi anglosassoni, dagli stati Uniti all’Australia, il dolce è molto noto. Quest’estate mi sono imbattuta in diverse versioni di Banoffee nell’isola di Malta, dove tuttora l’influsso della cultura inglese si compenetra con una cucina decisamente mediterranea.

La ricetta originale, fornita dallo stesso inventore, prevede la preparazione della base con una frolla (250 g di farina 00, 125 g di burro, 25 g di zucchero, 1 uovo) cotta a bianco in forno a 180 °C; per l’assemblaggio del dolce viene indicato di cospargere la base con 600 g di caramello (salsa toffee), ottenuto bollendo il latte condensato, come spiegato nella ricetta che qui riporto, coprire con 5-6 banane mature, e completare con 425 ml di panna, montata insieme ad  1 cucchiaino di caffè istantaneo.

Per quanto riguarda il latte condensato, se ne trovano di pronti da usare. Altrimenti è facile prepararlo in casa, anche se richiede un poco di pazienza per il tempo di cottura. Un video che mostra in modo chiaro la procedura per ottenerlo è qui.



La versione che vi propongo è quella di Trish Deseine Stivens  in “Il caramello delle meraviglie” (2008, Guido Tomasi Ed.)






Ingredienti per una torta di 22 cm di diametro

400 ml di latte condensato: metti il contenitore di latte condensato a bagnomaria in un tegame dai bordi alti con acqua che lo ricopra quasi interamente e lascia sobbollire per 3 ore (se hai preparato in casa il latte condensato, trasferiscilo in un contenitore di metallo e coprilo ermeticamente con pellicola trasparente adatta alla cottura). Appena trascorso questo tempo, trasferisci il toffee in un contenitore di vetro e lascialo raffreddare.

300 g di biscotti tipo Digestive, 150 g di burro fuso: sbriciola i biscotti in una ciotola, irrorali con il burro fuso e amalgama il tutto. Trasferisci in una teglia dai bordi rimovibili, pressa accuratamente per compattare questa base di biscotto e riponi in frigorifero per almeno 2 ore.
2 banane, 350 ml di panna liquida, 150 g di mascarpone, cioccolato fondente e polvere di caffè q.b.(per decorare): monta la panna e uniscila al mascarpone, creando una crema omogenea. Cospargi la base di biscotti con il caramello raffreddato, aggiungi uno strato di banane tagliate a fette rotonde, completa con uno strato di crema di panna e mascarpone e decora con pezzetti di cioccolata e polvere di caffè.
Conserva in frigorifero.

È molto bella anche la versione nel bicchiere trasparente, in cui sono visibili i diversi strati alternati.

P.S. Sappiate che il calore fa perdere consistenza al caramello e alla panna. Perciò, mangiate il dolce appena tolto dal frigorifero!




© Gourmandia

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